martedì 21 febbraio 2012

Io non c’ero.


Io non c’ero. La Sardegna rappresentata meglio dalla protesta che dalle istituzioni. Orgoglioso del mio partito: non abbiamo niente da chiedere




21 FEBBRAIO 2012 
Io non ero, ieri, al teatro lirico. Né ero con i miei colleghi dell’Università. Né sono andato in Consiglio regionale. Non c’ero per pudore e impegno civile.
Pudore perché non c’è spazio di questi tempi per la mondanità mascherata da impegno istituzionale; per impegno civile, perché l’Italia è la mia controparte nella crisi di lavoro e di sviluppo che patisce la Sardegna.



Io non ho baciato la mano, non ho frequentato la mondanità fuori luogo, non mi sono fatto sedurre dal neonato potere regio. E non sono per nulla contento di aver visto la Sardegna  rappresentata meglio dalla protesta che dalle istituzioni.
Noi sardi abbiamo molte responsabilità, ma la maggiore è dell’Italia e del suo medievale sistema fiscale. Oggi il mio partito, lento, vecchio, con riflessi ottocenteschi, ma vivo, pubblica sui giornali una lettera aperta in cui io mi riconosco totalmente. Una lettera dignitosa che dà senso anche alla mia fatica. La riporto integralmente. Fatela girare, per cortesia.
“Il Partito sardo d’Azione non si unisce alla voce di coloro che Le chiedono promesse per la Sardegna.
Confidare nella benevolenza altrui è un atteggiamento mentale che non ci appartiene e che riteniamo dannoso coltivare nei rapporti fra la Sardegna e lo Stato italiano.
Uno Stato che ha reclutato coattivamente la gioventù sarda mandandola a combattere nelle trincee di una guerra lontana che ha causato, oltre ad innumerevoli drammi umani, incalcolabili danni all’economia dell’isola, lasciata orfana di un’intera generazione.
Questo Stato che ci ha costretto, e ancora ci costringe, a subire leggi per noi inadeguate.
Che dovrebbe rappresentare gli interessi dei sardi in Europa ma non lo fa, dimenticando i bisogni della Sardegna e ignorando le sue aspettative.
Che si comporta come un evasore, violando impunemente l’articolo 8 dello Statuto e trattenendo per sé i soldi che sono del Popolo Sardo.
Un popolo che viene così privato delle proprie risorse e quindi del potere di decidere il proprio futuro.
Ecco perché, Signor Presidente, noi crediamo che solo quando finirà questo rapporto di subalternità con lo Stato italiano la Sardegna potrà ricominciare a crescere, a sperare e ad essere veramente libera.
Libera di trasformare in un vantaggio la propria posizione di isola al centro del Mediterraneo e di rivolgersi, nella propria lingua, all’Europa e al mondo.
Libera di costituirsi in zona franca e di attrarre nuovi investimenti, di sviluppare la propria agricoltura e la propria industria; libera di decidere la propria fiscalità e di difendere le proprie imprese.
In una parola, alla nazione sarda serve l’indipendenza ed è guardando a questo orizzonte che i sardisti proseguono, democraticamente e pacificamente, il loro cammino politico.
Lei, però, Signor Presidente, rappresenta l’Unità della nazione italiana e ne difende l’integrità, perché così stabilisce la Costituzione italiana.
Per questo, pur nel rispetto del Suo ruolo e della Sua persona, noi sardisti non abbiamo nulla da chiederLe”.

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